I mille colori del marmo

Come è ben noto, la visione in bianco e nero che abbiamo della scultura e dell'architettura classica è frutto di un equivoco consolidatosi nel corso del XVIII secolo. Gli edifici marmorei del mondo greco e romano, al pari dei fregi e delle statue che li popolavano, vantavano infatti un'accesa policromia che costituiva il necessario completamento dell'opera. Ben nota alle fonti antiche fu, ad esempio, la collaborazione fra l'ateniese Prassitele, senz'altro la personalità più rilevante della scultura del IV secolo a.C., e il pittore Nicia, fra i più celebrati della sua generazione, alle cui abili mani era affidata la coloritura degli incarnati e degli attributi dei marmi concepiti dal genio attico.

Se le tracce dell'originaria policromia sopravvivono spesso in buono stato di conservazione nelle opere rinvenute direttamente nel terreno, assai più difficile è invece la loro sopravvivenza su quelle sculture che abbiano conosciuto secoli di storie e vicende collezionistiche, come è il caso delle statue della Galleria degli Uffizi. Se si considera che, ancora sul finire del Settecento, marmi che presentavano vistosi resti di coloritura, a Firenze come a Napoli o a Roma, furono oggetto di accurate lisciature ad acido per cancellare i resti di una decorazione ritenuta il prodotto di interventi tardivi che avevano turbato il candore originario, la sfida di restituire l'originaria veste colorata alle sculture di antica collezione può sembrare un'impresa disperata e destinata al fallimento.


Foto e grafica di Maria Brunori

Il progredire della strumentazione e l'affinarsi degli strumenti di indagine, che attualmente possono vantare il ricorso anche a strumentazioni spettrometriche portatili, lasciavano però aperta la porta alla speranza di poter recuperare le reliquie di una decorazione pittorica, forse invisibile ai nostri occhi, ma certo non a quelli dei sofisticati strumenti di ricerca. Da questa scommessa è nata la collaborazione fra il dipartimento di Antichità classiche della Galleria degli Uffizi e il dipartimento di Chimica dell'Università di Modena e Reggio che, nelle persone dei professori Pietro Baraldi e Paolo Zannini, vanta da almeno tre decenni un ruolo di primo piano a livello europeo nella ricerca della policromia antica. A distanza di quasi un anno dall'inizio di questa fruttutosa collaborazione è possibile affermare che la scommessa è stata vinta. Lì dove l'occhio non leggeva altro che una superficie candida, ecco che il microscopio ottico e le analisi compositive realizzate con il ricorso alla fluorescenza di raggi x hanno trovato l'ombra delle antiche cromie, fornendo dati preziosi e sinora ignoti per restituire alle sculture il loro fulgore originario. E' questo il caso di una statua di Minerva minore del vero, sulla cui egida (la corazza che ne difende il petto) sono emerse evidenti le pagliuzze d'oro dell'originaria doratura che, affiancata ai verdi e ai rossi della veste, conferiva alla statua un vigore e una grandiosità che è davvero difficile da immaginare oggi. I verdi dei sarcofagi con Nereidi, realizzati con la preziosissima polvere di lapislazzulo, i neri ottenuti con polvere di carbone per disegnare le iridi di ritratti e statue, come quelle dell'atleta del primo corridoio, il blu notte col quale era dipinto il vello della pantera del gruppo della Menade danzante, i rossi di ossido di ferro utilizzati per colorare la stola della matrona augustea presentata alla mostra "Volti svelati" sono solo alcune delle cromie ritrovate dopo mesi di pazienti ricerche e analisi mirate.



Tutte queste scoperte, per quanto importanti e inaspettate, cedono, però, il passo dinanzi al ritrovamento di ampie porzioni delle lamine auree che rivestivano i capelli della Venere dei Medici. I restauri che da oltre un anno stanno restituendo l'antico splendore alla Tribuna hanno, infatti, riguardato anche le sculture lì ospitate dalla fine del XVII secolo. Si tratta dei maggiori vanti delle antiche collezioni medicee : il Satiro danzante, i Lottatori, l'Arrotino e, soprattutto, la Venre dei Medici, per secoli icona della Galleria e da Canova ritenuta ancora archetipo della bellezza femminile. La doratura oggi riportata alla luce dalle indagini dei professori Baraldi e Zannini non è, in realtà, una scoperta del tutto inaspettata. Come sapevamo dai racconti e dalle descrizioni dei visitatori settecenteschi, il biondo aureo della Venere era ancora chiaramente visibile all'epoca ed era additato dalle guide di Galleria come una delle prove dell'alta qualità dell'opera. In seguito a un restauro eccessivamente zelante, compiuto probabilmente al momento del ritorno della scultura dall'esilio parigino imposto da Napoleone, la doratura scomparve del tutto e solo adesso, grazie ad analisi mirate, si è potuto dimostrare che quanto vedevano i protagonisti del Grand Tour non era frutto di un'allucinazione collettiva, ma era la testimonianza dell'antico ornato della splendida scultura che con l'aggiunta della doratura e della policromia (come dimostrano le tracce di rosso riconosciute sulle labbra) raffigurava in modo mimetico e realistico il corpo di una giovane donna. Non a caso, come bene hanno messo in luce i recenti lavori di ripulitura, persino i lobi della statua sono forati, per consentire l'inserimento di orecchini metallici che dovevano ulteriormente accentuare l'impressione di realismo.

Sotto i nostri occhi l'algido aspetto delle sculture classiche schierate lungo i corridoi degli Uffizi, ha così progressivamente ceduto il posto a una veste sgargiante di colori accesi, che in futuro si spera di poter restituire alla conoscenza e al godimento anche del pubblico più vasto grazie e restituzioni grafiche destinate ad affiancare le opere esposte.

Fabrizio Paolucci